LOS ANGELES – Dal 1953, quando venne pubblicato per la prima volta, il libro Where the wild things are di Maurice Sendak si è imposto in cima alla classifica dei libri per bambini più letti e amati in America. Dieci righe che accompagnano 40 pagine di fantasiose illustrazioni, la storia di un bambino cattivello chiamato Max che, solo e arrabbiato nella sua camera da letto, si ritrova su un’isola abitata da una strana compagnia di mostruose ed enormi creature dentate (le “wild things”) che lo eleggono a loro re e lo seguono in una sarabanda di corse selvagge fino a quando Max, annoiato da tante corse ma senza veri amici, riprende la sua barchetta per tornare a casa dalla mamma.
Da più di dieci anni diverse produzioni hanno tentato di portare sullo schermo il libro con varie sceneggiature e tecniche di animazione. Curioso che a spuntarla alla fine sia stato l’iconoclasta regista Spike Jonze, ex regista di video musicali e di skateboarding, ex marito di Sofia Coppola, al suo terzo film dopo Being John Malkovich e Adaptation. A lui, praticamente scomparso dalle scene dal 2002, la Warner Brothers ha affidato questa produzione da 80 milioni di dollari che esce negli States il 16 ottobre anche sui cinema Imax (in Italia dal 30 ottobre con il titolo Nel paese delle creature selvagge). Un film di azione che ha per protagonista un bambino di nove anni (Max Records) e mostri recitati da umani in costume con realizzazioni in CG (grafica di computer) e le voci di attori come James Gandolfini, Mark Ruffalo e Forest Whitaker. Il film è stato girato interamente in Australia, in una foresta a due ore da Melbourne che sei mesi prima era stata semidistrutta da un incendio. Ne abbiamo parlato a Los Angeles con Jonze.
L’idea iniziale per me è sempre stata quella, azione dal vivo con un protagonista bambino e mostri veri! Leggendo il libro mi calavo nel personaggio di Max, e come lui non immaginavo di entrare in un mondo fatto di disegni ma di mostri e creature vive, prendevo la storia seriamente. E non mi sembrava eccitante fare un film tutto in CG, volevo fisicità e realtà, fare capire in modo viscerale come si può sentire un bambino di nove anni che arriva in un mondo sconosciuto pieno di gente strana. La mia esperienza con l’animazione l’avevo fatta, tanti anni fa, quando ancora dirigevo video musicali e di skate, e ho cercato di adattare, con un misto di animazione e azione dal vivo, un libro per bambini Harold and the Purple Crayon. Per un anno e mezzo ho lavorato come un matto, per poi vedermi togliere tutto dallo studio perché non condividevano le mie idee. Questa volta ero deciso a non farmi dire cosa fare e seguire i miei istinti.
Quanto di autobiografico c’è nel film? Lei si è mai sentito diverso?
Non ho mai visto il nostro Max come particolarmente speciale. Sono sempre stato convinto che questo è un film con cui qualunque bambino di nove anni si può identificare. La profondità dei tuoi sentimenti a nove anni, se sei eccitato o innamorato di qualcosa, se ti senti solo o arrabbiato, è altrettanto forte di quando sei adulto.
Ma Max è un bambino un po’ disadattato.
Non sono d’accordo. Tutti i bambini hanno dei trantrum, è naturale, e la nostra società è così rapida a esagerare nel medicare e fare diagnosi dei bambini, è triste. I genitori devono parlare con i loro figli, sempre, è il lavoro più importante che esista.
Cosa pensa, da adulto, dell’importanza del libro Where the wild things are?
Quando Maurice ha pubblicato il libro nel 1953, bibliotecari, psicologi infantili, maestri, genitori, tutti lo avevano condannato dicendo che era pericoloso perché dava credito alla rabbia e alle reazioni isteriche di un bambino invece di insegnare l’obbedienza e la calma. Maurice ha reagito dicendo che anche le mamme sbagliano a volte, non accettando la ribellione necessaria dei loro figli. L’onestà del suo libro ha finito per farlo diventare il libro più letto in America, quello che tutti i bambini volevano prendere in prestito in biblioteca. Ci ha messo degli anni, ma ora è un classico.
Nel corso del film lei ha stretto una forte amicizia con lo scrittore Maurice, vero?
Sì. Maurice è un grande artista. Qualcuno mi ha chiesto se lo sento come un nonno, e io invece lo sento come fratello, perché a 81 anni è curioso e si pone ancora altrettante domande che aveva da ragazzino. E’ anche un incredibile, assurdo poeta, le sue conversazioni sono buffe, profonde, stimolanti. Durante le riprese del film ho fatto un documentario su di lui, registravo tutte le nostre chiacchierate, perché voglio ricordare per sempre tutto quello che diceva, voglio avere 81 anni ed essere aperto e giovane come lui. E sono pronto a mandare una copia dei video di quelle conversaizoni a tutti quelli che me lo chiedono!
Anche lei dunque ha il suo lato selvaggio?
Assolutamente si’! (ride).
Che posto occupa ancora lo skateboarding nella sua vita?
Sono sempre due grandi passioni, ma skateboarding ha rotto parecchie ossa, quindi ora lo faccio un po’ meno. In compenso ho appena finito un video sullo skate, e sto montando un nuovo cortometraggio su una storia d’amore.