In occasione dell’incontro di stasera, No al Razzismo a Fermo, pubblichiamo un articolo scritto dal nostro amico e socio, nonché cittadino Fermano, Jonata Sabbioni.
Emmanuel, che aveva 36 anni, non avrebbe potuto fare finta di niente, questa volta. Non avrebbe potuto fare come altre volte aveva fatto. Non avrebbe potuto tirare dritto e far finta di non sentire gli insulti osceni che gli rivolgevano. Che rivolgevano a lui e alla moglie Chinyery, che ha 24 anni. Che gli rivolgevano da quando è arrivato in Italia, molti mesi fa, dal suo paese distrutto. Dalla sua casa. Dopo la distruzione della sua casa. Dopo la distruzione della sua vita. Questa volta l’hanno provocato e l’hanno strattonato, l’hanno aggredito. Ma, diversamente da quelle precedenti, questa volta hanno aggredito lui e Chinyery. Hanno offeso ignobilmente lui e la moglie. Questa volta era diversa dalle altre perché non era solo. Era con sua moglie, la giovane Chinyery. Martedì 5 luglio 2016, intorno alle 17, a Fermo, in Via XX settembre, nei pressi del seminario, un uomo è stato brutalmente ucciso in strada, in pieno giorno, per nessun motivo. Davanti agli occhi della moglie. Della giovane moglie. Emmanuel non era solo ed era stanco di sopportare le offese e le violenze e le brutali disumanità degli uomini. Emmanuel era stanco, dopo tutto ciò che aveva sopportato. Non poteva tollerare altre violenze. Non poteva non difendere Chinyery. Dopo la perdita della propria famiglia per mano dei terroristi. Dopo aver visto morire i propri genitori e la propria figlioletta per mano degli orribili terroristi. Per mano degli uomini della morte. Emmanuel era stanco di sentirsi addosso la morte. Emmanuel voleva vivere. Voleva vivere con Chinyery. Non poteva lasciare indifesa Chinyery, che era stata la madre di sua figlia. Che aveva sposato perché erano la stessa cosa. Martedì 5 luglio erano usciti insieme. Erano insieme come marito e moglie, anche se non per la legge. Erano una cosa sola, Emmanuel e Chinyery. Erano insieme per sempre, come s’erano detti. Erano insieme perché avevano vissuto insieme, erano scappati lungo la stessa strada, sulla stessa barca erano fuggiti verso l’Italia, attraverso il Mediterraneo. Erano stati nelle stesse prigioni libiche. Avevano sofferto insieme la sete e le violenze. Avevano sentito la morte dentro il loro cuore. La stessa morte. Un cuore unico come quello di chi vive insieme profondamente, avevano sentito la stessa morte. Insieme, dalla Sicilia, erano arrivati a Fermo. E stavano insieme martedì 5 luglio, intorno alle 17. La mattina si erano visti presto, nel refettorio del seminario. Avevano parlato, avevano pregato insieme, quella mattina. Lo facevano sempre, la mattina. Avevano sperato per il loro futuro, anche la mattina di martedì 5 luglio. Lo facevano sempre insieme perché unire le speranze è vitale, quando manca tutto. Avevano pranzato insieme. Ed erano usciti insieme, nel pomeriggio, a fare una passeggiata. Avevano camminato tenendosi per mano. Per qualche centinaia di metri. Intorno alle 17 due uomini hanno offeso e aggredito Emmanuel e Chinyery. Questa volta Emmanuel ha deciso di reagire. Ha deciso di affrontare il nemico, uomo anche egli, ma trasfigurato. Trasformato in morte egli stesso perché accecato alla vita, cieco alla vita. Disumano fino alla morte. Il nemico era la morte. Emmanuel è stato barbaramente ucciso per nessun motivo. Perché era un uomo vivo. E la vita spaventa gli uomini disumani fino alla morte. La violenza è durata poco. Qualche minuto. Qualche minuto può bastare per la morte. Può bastare alla morte per diventare assassina. Perché la morte teme la vita. E la teme fino al punto di decidere di essere spietata. Di essere senza pietà. Di essere empia. Di essere disumana. E la disumanità teme l’uomo e teme il cuore grande di Emmanuel. Emmanuel è morto dopo una lunga agonia. La vita non lo voleva lasciare, in verità. Emmanuel era un uomo.
Emmanuel è vivo.