ROMA – Rieccolo, il “Tribüla”. L’avevamo dimenticato, in tutti questi anni e invece era sempre stato lì, anche se ben nascosto dentro una tuta della Renault, sul divano di pelle di un privé, o su qualche pagina patinata.
Maschera della moderna commedia italiana, il Tribüla – quello che si arrabatta con ogni mezzo – è il soprannome che un giovanissimo Flavio Briatore si era conquistato sul campo del Country Club di Cuneo. Non sapeva fare nulla, raccontano gli amici, ma era piacione, simpatico, bello, bravo, un artista, nel ramo. E non è un caso che nel giro di pochi anni, abbia divorato tutta la strada che separava quella sua provincia dal centro del mondo, che nel suo caso non è un luogo preciso ma uno stile di vita, un modo dell’anima.
La epopea del Tribüla comincia con un’esplosione. Era all’alba di una mattina del ’79 e Attilio Dutto il suo primo socio (nella Paramatti Vernici, società poi fallita), saltò in aria insieme alla sua macchina. Chi mise quella bomba e perché lo fece, non fu mai chiaro e oggi quel botto risuona come un’eco lontana e misteriosa.
Briatore sparì da Cuneo. Carsico, ricompare a Milano qualche anno dopo; stavolta è al centro di un giro dal fascino psichedelico. Oltre a lui, giovane e playboy, c’è un team felliniano: un conte (vero), Attilio Caproni di Taliedo, un marchese (falso) Cesare Azzaro, uno che in pieno delirio di onnipotenza si definiva il miglior giocatore di carte del mondo, poi un avvocato da romanzo, Adelio Ponce de Leon, e di contorno il solito arsenale di mezzi vip (costante fissa di questa storia): Emilio Fede, Pupo e Loredana Berté, i più assidui. Tutti insieme con azzardo, in un’interminabile tournée tra bische, villoni, hotel jugoslavi e safari in Kenia. La tournée in realtà, come scoprirà poi la magistratura, ha un’altra funzione: arruolare “polli” da far spennare a un gruppo di malavitosi eredi di Francis Turatello. Briatore viene condannato a tre anni. E scappa alle Isole Vergini.
Torna qualche tempo dopo, grazie a un’amnistia. Le vecchie conoscenze dell’epoca del tavolo verde gli sono utili: e Luciano Benetton (uno dei frequentatori di quelle serate, che gli fu presentato da Romano Luzi, maestro di tennis di Silvio Berlusconi) lo arruola in ditta, pronunciando su di lui (e sulla maschera del Tribüla) una frase a metà tra l’apologia e l’epitaffio: “È un teppista ma è tanto simpatico”.
Partito dal Country Club di Cuneo, il simpatico teppista si ritrova così a guidare un team di Formula 1, il famoso Benetton Formula. Lì ha due intuizioni geniali: a) la F1 non è sport, è business; b) Michael Schumacher. Abbinando i due elementi diventa nel giro di pochi anni il numero uno; vince e vende, vince e vende, vince e vende. Compra barche più lunghe di via Nizza (la via centrale di Cuneo), discoteche con piscina, squadre di calcio inglesi, jet privati. Conia il suo motto, niente di originale, per carità, ma pur sempre un motto tutto suo: “Se vuoi, puoi”.
Passa dalla Benetton alla Renault. La sua vita diventa un’installazione di arte contemporanea, un inno all’esibizione. Tutto finisce nella sua vetrina di cristallo: donne, affetti, potere, amicizie importanti; Naomi, le pantofoline fb, la barcona Force Blue, Elisabetta, il Billionaire; recita il ruolo di se stesso in “Vita Smeralda” (trascurabile prova alla regìa di Jerry Calà), diventa il modello di milioni di giovani telespettatori che in un sondaggio affermano di voler fare “il Briatore” da grande, annuncia alla stampa la prossima nascita del suo erede.
Un gigantesco gioco di specchi e paillette che finisce per ingannare anche il suo autore, il vecchio Tribüla, che era convinto davvero di essersi trasformato in “Flavio Briatore”.