Donadoni

Il RITORNO in panchina di Donadoni, otto mesi e mezzo dopo la fatale notte di Vienna e i rigori sbagliati da De Rossi e Di Natale che gli costarono il posto da ct, è stato accelerato dagli eventi. Senza le disavventure di Reja nell’ultimo mese, avrebbe probabilmente assunto la guida del Napoli o di un’altra delle squadre italiane cui veniva accostato il suo nome (Udinese, Sampdoria, più difficilmente Milan) a luglio, secondo un percorso più naturale e con un privilegio che ha raramente avuto, nella sua ancor breve carriera di allenatore: quello di non dovere obbedire alla fretta. I precedenti sono noti:

nel 2003 al Genoa si ritrovò a dovere affrontare la serie B con una squadra ripescata dalla C e costruita per quella categoria, nel 2004 il suo secondo ciclo al Livorno cominciò dall’esonero di Colomba e perfino l’approdo in Nazionale nel 2006 fu il frutto di una decisione repentina del commissario della Figc Guido Rossi, che lo scelse nella ristrettissima rosa dei tecnici non sporcati, nemmeno di striscio o per colpe altrui, dal fango di Calciopoli. Stavolta, tuttavia, l’assunzione in corsa potrebbe rivelarsi un vantaggio: gli garantirà un acclimatamento più agevole in una piazza calcistica passionale quanto complicata e lo studio dei pregi e dei difetti della squadra, degradata in poche settimane da solida promessa a grande delusione, gli dovrebbe permettere di programmare insieme alla società il mercato estivo con la massima cognizione di causa. Il contratto firmato fino al 2011 indica la coincidenza delle aspettative reciproche: da un lato l’esigenza dell’ex commissario tecnico di costruire finalmente in una squadra di club un gruppo a sua misura, dall’altro l’obiettivo di De Laurentiis e Marino di un progetto a lunga scadenza, che riporti il Napoli ai vertici della serie A, con una precisa identità tattica e di gioco.
La pausa tra il divorzio dalla Nazionale e questo nuovo incarico non è stata eccessiva. Donadoni ha occupato lo scomodo limbo, che per eufemismo viene definito aggiornamento, senza perdere l’entusiasmo: ha continuato a seguire partite e ha aspettato la chiamata giusta, in base alla sua classica massima: “Per fortuna mi sono sempre potuto permettere di scegliere senza pensare ai soldi. Quelli fanno comodo, per carità, ma conta molto di più il progetto”. Non è una semplice affermazione di principio. Lo dimostrano la famosa vicenda della clausola sul contratto con la Figc, col diniego di fronte alla proposta della buonuscita di mezzo milione di euro formulata dal presidente federale Abete, e le discussioni per le ingerenze dei suoi presidenti: al Lecco di Cimminelli, che poi lo richiamò in panchina, e al Livorno di Spinelli, con tanto di rinuncia allo stipendio. Non è dunque sorprendente che Donadoni, dall’autunno in poi, si sia concesso il lusso di parecchi no, per la maggior parte davanti a offerte straniere: i contratti erano sontuosi, mancavano le garanzie tecniche. Così non è andato a Londra (Fulham, West Ham), a Mosca (Spartak), a Donetsk (Shakhtar), ha rifiutato un paio di club greci e non ha ceduto alla tentazione di diventare ct del Giappone, come a suo tempo, dopo il Mondiale 2006, non si era lasciato sedurre dalla panchina degli Usa. In Italia ci ha provato invano Cairo col Torino. Maggiori probabilità di successo potevano averle Sampdoria e Udinese. Al Milan è stato collocato, ragionevolmente, tra i candidati alla successione di Ancelotti, se mai avverrà. De Laurentiis, però, ha bruciato tutti, grazie anche alla giovane squadra condotta da Reja a un ottimo campionato e mezzo, prima del recente tracollo e degli infortuni a catena (Maggio e Gargano su tutti). Non sono più i tempi di Maradona, ma il potenziale – Lavezzi, Hamsik, Denis, Santacroce – rimane eccellente e chissà che non si aggiunga prima o poi, accanto al fratello Paolo, Fabio Cannavaro, il cui ruolo da capitano non giocatore all’Europeo rinsaldò il rapporto con Donadoni. Il resto lo ha fatto il fascino di Napoli e del Napoli, che già sedussero Lippi, prima del favoloso ciclo juventino.

Di sicuro, dopo i due anni dell’esperienza in Nazionale dove raccolse l’eredità di Lippi campione del mondo per poi restituirgli lo scettro, il quarantacinquenne Donadoni non può più essere considerato un giovane allenatore di belle speranze. L’Europeo ne ha rivelato il carattere intransigente, il dogma dell’uguaglianza tra pari (gioca chi è più in forma), la preferenza per il tridente. Ha diviso la critica, che lo ha spesso tacciato di cocciutaggine. La qualificazione in rimonta, partendo dall’ovvio rischio di saturazione dei campioni del mondo in un rischioso girone con Francia, Scozia e Ucraina, è stata un’impresa o un risultato banale? E l’eliminazione ai quarti di finale e ai calci di rigore, per mano della Spagna futura campione d’Europa dopo 120′ contraddistinti da una sola vera occasione da gol (azzurra, di Camoranesi) e in assenza di Cannavaro, Gattuso e Pirlo, è stata un fallimento o il migliore degli esiti possibili, per un calcio in declino? Il dibattito è ancora aperto. Lippi si sta imbattendo negli stessi limiti – crisi degli attaccanti, penuria di difensori – che affrontò Donadoni. Dell’era donadoniana ha promosso Di Natale, Chiellini e Quagliarella, bocciando Cassano e Ambrosini e constatando il progressivo affievolirsi degli eroi di Berlino.
Dall’azzurro all’azzurro, comunque, i prossimi mesi chiariranno qualcosa. Che Napoli sia nel destino di Donadoni è fin troppo scontato ricordarlo. Al San Paolo partì nel settembre 2006, con l’1-1 contro la Lituania, la sua avventura da ct ad handicap, per rincorrere la Francia e la qualificazione all’Europeo. E al San Paolo, nella celebre semifinale con l’Argentina al Mondiale ’90, Vicini si aggirava tra gli azzurri dopo i supplementari, cercando volontari per i decisivi tiri dal dischetto. Risposero sì i rigoristi Baggio, Baresi e De Agostini. Altri accusarono dolorini, altri non se la sentivano. Così sbagliarono Serena e Donadoni, che rigoristi non erano, ma avevano coraggio. Ora il destino napoletano dell’ex ct è a un nuovo passaggio: è l’occasione per aggiustarlo