Dic
2008
Come Dio comanda
Vincitore del Premio Strega 2007, “Come Dio comanda” di Niccolò Ammaniti è un romanzo potente, una sinfonia in cui la più cupa tragedia riesce a dar vita ad un grande affresco sociale, scandendo una storia che tiene il lettore appassionato fino all’ultima pagina.
Pubblicato in Italia da Mondadori alla fine del 2006, ha venduto più di 400.000 copie ed è stato tradotto in 35 paesi. Ora questa storia intensa e forte viene magistralmente trasposta sullo schermo dal Premio Oscar Gabriele Salvatores (“Sud”, “Mediterraneo”, “Marrakech Express”).
Qualche anno fa il regista ci aveva commosso con la storia di un ragazzino del profondo Sud (“Io non ho paura”). Oggi Salvatores sposta la macchina da presa per riprendere un altro adolescente nel nord del nostro paese: in quel Friuli Venezia Giulia, con le sue condizioni climatiche particolarmente avverse e che hanno messo a dura prova anche la recitazione degli attori durante le riprese del film.
Partendo dal romanzo, il regista lo rivede alla grande. Da un’unione perfetta tra storia impegnativa, regista da Oscar e autore profondo e sensibile, Salvatores smonta e taglia in vari punti per ricondurre l’intera vicenda a tre soli uomini e alle loro storie, concentrandosi solo su quello che è il fulcro dell’intero romanzo: Cristiano, Rino e Quattro Formaggi.
Sullo sfondo fabbriche, case a schiera, centri commerciali, segherie, cumuli di alberi tagliati e accatastati ordinatamente.Montagne e boschi impenetrabili, fiumi che si inabissano, acque trattenute dalle dighe e una terra che trema e freme. Come afferma il regista: “Una natura che ti accerchia, pronta a riprendersi quello che le abbiamo strappato; pronta a rompere gli argini e a travolgerci in una notte di tempesta”.
Perché è proprio in una notte di tempesta che il tragico prende il sopravvento nella vita di un padre, di suo figlio e del loro strano e curioso amico.
Cristiano è un giovane ragazzo che frequenta le scuole medie. Vive da solo con il padre Rino e sta crescendo alla sua scuola di genitore razzista, violento e spesso ubriaco, verso il quale, tuttavia, il giovane nutre un legame d’amore smisurato. Quasi venerato come un dio, lo rispetta e lo ammira essendo l’unico riferimento indispensabile nella sua vita.
Rino è il genitore unico (l’assistente sociale veglia sui due per assicurarsi che il ragazzo possa avere una vita decorosa). Lavoratore precario, poi diventato disoccupato, uomo dominato dalla rabbia nata da ragioni economiche e che nasconde quel senso di disperazione e di collera, unici elementi che deve difendere a spada
tratta. Odia gli ebrei, il diverso, l’extracomunitario e non stenta a mettere la pistola in mano al proprio figlio (non serve conoscere e vincere a karate nella vita. Bisogna solo saper picchiare duro).
A questo sentimento fa da contrappeso l’esatto opposto amore assoluto, totale ed estremo verso Cristiano. Un padre tanto violento quanto altrettanto presente nella vita del figlio(quanti genitori chiederebbero al proprio adolescente “Forza: dammi un bacio!”) al quale è legato da una straordinaria e potente fiducia reciproca.
Quattro formaggi è l’amico dei due uomini. Il buffone del paese; disturbato psicologicamente da un incidente che gli ha lasciato evidenti segni a livello cerebrale e che passa le sue giornate a costruire uno strano presepe a casa sua con oggetti recuperati nelle varie discariche della città.
Girato tutto con la macchina a spalla, con più piani di sequenza, interrotti e incrociati in fase di montaggio, Salvatores riesce molto bene ad entrare nei tre personaggi e a rappresentare sul grande schermo i sentimenti, le paure e le emozioni di questi tre uomini soli, alla ricerca di una qualsiasi identità.
“Sembra di essere in un perfetto dramma Shakesperiano – sottolinea il regista – con il padre padrone, il figlio adolescente e il folletto strambo”. Dove la presentazione degli attori lascia il passo al buio della tempesta (l’omicidio che si consumerà brutalmente in una notte) per poi giungere a quella forma di redenzione che li cambia e li rinnova interiormente.
Una pellicola ricca di odio, d’amore, di comprensione e di protezione. Che riesce a commuoverci in maniera delicata e leggera. Merito degli straordinari protagonisti. Un Filippo Timi (“Signorinaeffe”, “Saturno contro”, “In memoria di me” e qui nel ruolo del padre) che recita con grande sensibilità, intelligenza e capacità espressiva; un Elio Germano (cinque film solo nel 2007, “Il passato è una terra straniera”,
“Nessuna qualità agli eroi”, “Il mattino ha l’oro in bocca”, “Tutta la vita davanti”, “Mio fratello è figlio unico”) molto intenso e che veste altrettanto bene gli abiti dello strano folletto-spirito della foresta; un esordiente e promettente Alvaro Caleca nella parte dell’adolescente che matura, cresce e diventa uomo.
Il tutto accompagnato da una colonna sonora di grande rispetto che il regista ha voluto affidare al gruppo romano dei Mokadelic, delegando a loro il compito di realizzare dei brani ispirati alla pellicola e ai suoi personaggi.
Musica suonata ma senza voce, che canta ma senza parole (a parte l’innesto di tre gettonate canzoni firmate Bertè, Elisa e Robin Williams che sottolineano i momenti cruciali della storia).
E su tutta la vicenda l’assenza (o forse la presenza) di quel Dio che tutti invocano, che guarda tutto dall’alto e che sembra aver dimenticato questa landa deserta.
Un Dio che, pur guidando i passi di questi tre uomini diversi, sembra far risuonare la sua voce solo quando è troppo tardi, quando i fatti sono ormai compiuti.
“Io non so se Dio esiste”, si confessa il regista. “Ma dai pochi segni che lascia sulla terra direi proprio di no. A lasciare i segni siamo solo noi uomini e così, forse, potremmo dire che Dio siamo noi”.
Ognuno scoprirà i suoi limiti: il padre di non essere indistruttibile, il figlio di avere un genitore umano, Quattro Formaggi di aver commesso lo sbaglio più grosso della sua vita che lo condurrà inesorabilmente sulla strada del non ritorno.
Forse la presenza di Dio può essere intravista in questa riscoperta di se stessi.
O forse, come la pioggia che domina gran parte della pellicola, la possiamo leggere nelle lacrime dell’ultima scena. Quelle lacrime che lavano via tutto, puliscono il volto di un uomo, gli tolgono quella maschera e lo rivelano nella sua più vera e profonda umanità.