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ROMA – “Mi chiamo Matteo, e sono un luogo comune”: così il protagonista di Generazione mille euro, liberamente tratto dall’omonimo libro-manifesto della vita precaria all’italiana, presenta se stesso, all’inizio del film. Consapevole com’è di essere un simbolo della generazione di trentenni (o giù di lì) che dell’insicurezza hanno fatto, loro malgrado, una regola ferrea. Sottopagati, impiegati in lavori molto inferiori alle loro competenze, eterni contrattisti a termine, costretti a restare prigionieri di una forzata sindrome di Peter Pan, seppelliscono sogni e desideri – irrealizzabili – sotto il lasciarsi vivere.

Ma non fatevi ingannare dalla serietà epocale del tema, o dalla tristezza di fondo di questi ragazzi un po’ cresciuti: perché il film – da venerdì nelle sale, distribuito in circa 300 copie da RaiCinema – in realtà è una commedia. In cui si sorride, più che ridere; in cui la malinconia è sempre in agguato; ma pur sempre una commedia. Del resto a dirigerla è uno specialista del genere: Massimo Venier, storico collaboratore della Gialappa’s e e poi regista abituale di Aldo Giovanni e Giacomo. E che qui è anche autore della sceneggiatura, insieme a Federica Pontremoli, solo vagamente ispirata al libro di Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa (edito da Rizzoli): “Il loro volume – spiega lo stesso Venier – è soprattutto una guida su come sbarcare il lunario; noi invece ci siamo concentrati sulle storie di cinque personaggi, dalla caratteristiche tra loro assai diverse. Cinque modi differenti di vivere il precariato”.

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Il protagonista è Matteo (Alessandro Tiberi), trentenne, laureato brillantemente e specializzato in matematica, che per campare a Milano ha accettato un contratto a termine nel settore marketing di una multinazionale. Al lavoro, condivide la scrivania con Faustino detto Cernobyl (Francesco Brandi), ossessionato dall’idea di perdere il posto; a casa, o meglio nell’appartamento fatiscente in cui è in affitto, divide le spese con l’amico e coinquilino Francesco (Francesco Mandelli), gran giocatore di playstation e appassionato di cinema. La sua vita cambia quando conosce due ragazze: l’aspirante supplente di greco nelle scuole Beatrice (Valentina Lodivini), e la vicecapo marketing in carriera Angelica (Carolina Crescentini)… E alla fine, in amore così come nel “cosa voler fare da grandi”, dovrà compiere una scelta.

Su tutto, però, aleggia il tema dell’esistenza eternamente precaria. Ma, come spiega il regista, senza pretese “sociali o politiche”. E con una sorta di idiosincrasia per la parola chiave della storia: precariato, appunto. “Non la amo perché è abusata, televisiva – prosegue – quando le parole diventano dei marchi finiscono per nascondere, invece che illuminare, il problema. Ripetuta ossessivamente, perde di significato. Certo, il fenomeno in sé è gravissimo, tremendo, pericoloso; ma la realtà è più differenziata, più sfaccettata di quanto questa definizione faccia pensare”.

Da qui la scelta di caratterizzare fortemente i cinque personaggi principali. Con le due donne alle prese con caratteri più forti, più determinati, di quelli maschili: “E’ vero – conferma Venier – sono convinto che è l’elemento femminile quello che fa cambiare il mondo”. Quanto alle due attrici che interpretano i ruoli sullo schermo, la lanciatissima Crescentini descrive la sua Angelica come “una che fa semplicemente quello che vuole, e fa di tutto per raggiungerlo. Nel film ha ancora un sorriso sincero, simpatico: ma dovremmo rivederla tra qualche anno, per vedere come è diventata”.

La Lodovini, invece, sottolinea come ci sia qualcosa in comune tra i personaggi e coloro che li interpretano: il precariato, per quanto di lusso, è infatti una condizione ineliminabile del mestiere di attore. “Il nostro lavoro è incerto nella sua essenza – fa notare – nessuno di noi è immune da momenti di depressione o di paura”.